Domenica 19 dicembre alle 21 presso la Casa Marvelli

Regia: Giovanni Veronesi
Attori:
Diego Abatantuono (Giuseppe)
Ugo Conti (Zebulon)
Penélope Cruz (Maria)
Mariangela D’Abbraccio (Tamar)
Renato De Carmine (Cleofa)
Eliana Giua (Maria A 8 Anni)
Alessandro Haber (Socrates)
Antonino Iuorio (Manasse)
Gianni Musy Glori (Avrahm)
Massimo Pittarelli (Gioele)
Laura Roncaccia (Giuditta)
Valeria Sabel (Sara)
Stefania Sandrelli (Dorotea)
Durata: 110 minuti
TRAMA
Giuseppe è un uomo diverso dagli altri, ha in mente di visitare le città del mondo, Atene, Sparta, Damasco, Roma… vuole invecchiare camminando, vuole amare le donne. Ma il suo destino invece gli fa incontrare Maria, una ragazza molto più giovane, con un carattere solido, caparbio, sicuro. Giuseppe non riesce a resistere al fascino infantile della ragazza; finisce per sposarla. I due si amano profondamente ma il destino li vuole separare a tutti i costi. Maria rimane incinta e racconta una verità impossibile. Giuseppe le rimane accanto non per pietà, non per protezione, ma solo perché l’amore certe volte assegna dei compiti ingrati e ordina al tuo cuore un martirio obbligato, senza via di scampo. Ma Giuseppe non vuole credere, non vuol sentire, cerca solo di ristabilire un’ordine di vita che ormai gli è sfuggito di mano. S’infuria, si ubriaca, affronta Maria, cerca di farla nuovamente innamorare, di corteggiarla come un tempo, ma quel muro invalicabile da lei costruito, non gli permette più alcun tentativo.
Tratto da un romanzo di Festa Campanile. Diretto da Veronesi, collaboratore di Francesco Nuti che gli aveva prodotto Maramao, film d’esordio. Sulla falsariga della storia di Giuseppe e Maria, personaggi biblici. Si ipotizzano i tormenti esistenziali e psicologici di colui che non è padre di suo figlio. Qui si immagina che sia donnaiolo e assiduo cliente di prostitute. Ma di fronte alla volontà del Signore accetta il bimbo non suo. Buona la recitazione, diligente ma senza voli la regia. La musica è di Nicola Piovani. Buoni incassi.
Non tutto funziona a dovere, va da sé, ma la dominante favolistica non viene mai meno e la tentazione della parodia risulta accuratamente respinta: non era affatto facile trovare una coloritura brillante, un po’ magica un po’ allucinata, per vicende cinematograficamente sbiadite. Solo giganti come Martin Scorsese hanno, in tempi recenti, saputo invertire il destino hollywoodiano degli show evangelici, accendendo sullo schermo, insieme alla suspense religiosa, un moderno talento visionario. Veronesi non ha statura omologa ma, nei suoi limiti, il film gli riesce facile e scorrevole, il ragionamento non prevarica lo stile e la poesia fa capolino senza esibirsi in mosse ad effetto. Particolarmente calibrato è l’ultimo sviluppo narrativo, che mette ai margini proprio il protagonista… ‘Per amore solo per amore’ disposto ad autoescludersi dal rapporto ineffabile tra la Madre ed il Bambino. Sacro e profano si confondono nel suo progressivo esercizio d’innamoratissima pazienza.
Per amore solo per amore è indubbiamente un prodotto singolare, forse inutile, a tratti inerte. Troviamo superfluo il confronto con il libro di Festa Campanile rispetto alla cui natura il film, comunque, accentua il cinismo e smorza la spiritualità. Veronesi (sceneggiatore di quasi tutti i film di Francesco Nuti e debuttante alla regia con Marameo, qualche anno fa) si lascia tentare dalle lusinghe del simbolismo (un anacronistico cavallo bianco – la libertà? – in stile bagnoschiuma, una torre nel deserto – il peccato? – Troppo fallica) ma fa bene a fidarsi dell’espressività assente e dell’autoironia distratta di Diego Abatantuono, non ancora completamente sgusciato fuori da Puerto Escondido e, forse, tatticamente, meno esplicito di quanto lui amerebbe. Graziosa e invitante Penelope Cruz, più consono ai Monthy Pyton de La vita di Brian, Alessandro Haber, bellissima ma un pò cresciutella (per la parte) Stefania Sandrelli.
Curiosa opera seconda, questa di Veronesi. Il regista toscano aveva esordito sei anni fa con l’insolito Maramao: una storia di bambini in cui gli adulti erano sempre inquadrati solo dalla vita in giù, come nelle strisce di Linus. E qui Veronesi sembra citarlo, dedicando la prima inquadratura ai piedi di Socrates che avanzano nel deserto, per poi far nascere l’amicizia fra il greco fuggiasco e l’ispido falegname palestinese. In fondo i duetti fra Haber (che, interpreta Socrates) e Abatantuono sono la cosa migliore del film, una bizzarra solidarietà virile che sopravvive alle violenze e ai traumi della vita. Mentre l’approfondimento psicologico di personaggi come San Giuseppe e la Madonna, che archetipi sono e archetipi dovrebbero rimanere, zoppica non poco (sarebbe come raccontare la vita di Babbo Natale, o inventarsi la giovinezza della Befana). Abatantuono regge anche i dialoghi più “attuali” ed improbabili, ma lo stesso non può dirsi dei comprimari (non si può, davvero non si può sentire il fratello di Giuseppe che lo accusa di aver difeso un’adultera chiedendogli: “Te la sei fatta anche tu?”). Alla fine, complice anche la zuccherosa, onnipresente musica di Piovani, si ha la sensazione di un film irrisolto: indeciso se diventare una commedia moderna in abiti antichi, una versione quotidiana del Vangelo di Pasolini (ma siamo lontani anni luce) o un apologo fuori del tempo sui temi della famiglia, sacra e non.
Pur se il passaggio di Stefania Sandrelli nell’insulso personaggio della cortigiana non lascia traccia, si può dire che le presenze degli interpreti per scelta oculata e ottima evidenziazione delle qualità individuali formano l’attrattiva del film; e ne conferma l’assenza di volgarità, il civile livello e l’aspirazione a due soldi di poesia. Meno convincono (e qui ci si potrebbe riallacciare al discorso dei piedi…) il tono generale della regia, l’abuso incontinente delle musiche di Nicola Piovani, l’ambientazione convenzionale nonostante la trasferta tunisina: insomma i modi e i tempi del racconto per immagini.
Come nel romanzo (1983), premio Campiello 1984, di Pasquale Festa Campanile dal quale è stato tratto, G. Veronesi (1963) e il suo sceneggiatore Ugo Chiti hanno raccontato Giuseppe della stirpe di David, sposo di Maria Vergine e padre delegato di Gesù Cristo, appena nominato nei Vangeli, come un uomo comune, immerso nel quotidiano: prima scapolo irriducibile, curioso della vita e del mondo, amante delle donne e da loro amato, ingegnoso artigiano del legno, di cui Maria giovinetta è innamorata sin da bambina, e poi sposo appassionato al punto di accettarne la misteriosa gravidanza, di perdere il senno e di morirne: “La storia che venne dopo cancellò la sua”. La direzione degli attori è all’altezza della rischiosa impresa e ne fa una scommessa vinta anche se la maggioranza dei critici lo sbrigò come un disinvolto e illustrativo tentativo di commedia all’italiana e i cattolici ufficiali lo attaccarono per eccesso di umanizzazione ai limiti con la profanazione. Oltre a Penelope Cruz (doppiata da Stella Musy), Maria poco ortodossa che tocca note di ammirevole intensità, Abatantuono interpreta Giuseppe con misura e ritegno che non smorzano la sua energia, spalleggiato da un ottimo Alessandro Haber nella parte del greco Socrates che l’ha scelto come padrone, tenuto a briglia corta dal regista e dal mutismo che, dopo il primo quarto d’ora, il ruolo gli impone. Nel romanzo è il narratore; qui diventa il coro silenzioso di quella che, in fondo, è la storia di un amore coniugale.
PREMI
1994 – DAVID DI DONATELLO PER MIGLIORE SCENEGGIATURA (UGO CHITI E GIOVANNI VERONESI), MIGLIORE PRODUTTORE (AURELIO DE LAURENTIIS), MIGLIORE ATTORE NON PROTAGONISTA (ALESSANDRO HABER).