Archivio per marzo, 2011

CINEFORUM CASA MARVELLI

Pubblicato: 31 marzo 2011 in Cineforum

Domenica 3 aprile 2011

ore 21 “Casa Marvelli”

Il giudice ragazzino, Alessandro Di Robilant, 1994

In contrasto con la spettacolarizzazione televisiva e la mitizzazione degli eroi dell’antimafia quest’opera dallo stile minimale fa emergere, senza retoriche, tutte le insicurezze, i dubbi e le paure di un protagonista della lotta per la legalità. Ispirato alla vera storia del giudice Livatino, ucciso dalla mafia nel 1990.

 

+ Dal Vangelo secondo Luca  Lc 11,14-23

Vangelo del giorno

In quel tempo, Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni». Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo.  Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl. Ma se io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio.
Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino.  Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde».

 

Il Vangelo di oggi ci presenta Gesù che scaccia un demonio muto. Questo ci fa riflettere. Spesso anche noi diventiamo “muti” dopo un litigio, solitamente si dice anche “teniamo il muso”, cioè anche il nostro volto si trasforma, diventiamo impenetrabili, non ci apriamo al dialogo, né lasciamo che le parole ci raggiungano… Sembriamo proprio sotto l’influsso del Maligno. A volte basterebbe proprio poco: un gesto, una parola, chiedere scusa e la pace potrebbe ritornare. Ma chi si lascia prendere dalla presenza del Maligno diventa muto e se lasciamo entrare nel nostro cuore un sentimento cattivo, l’odio ad esempio, questo produce il mutismo, cioè la rottura completa del rapporto con gli altri. Si decide allora di ignorare il prossimo, di non ascoltarlo e si finisce per isolarsi completamente da chi ci sta vicino.

Solo Gesù ci può guarire da questa tristezza spirituale. Quando ci capita di vivere questi momenti di mutismo possiamo invocare il nome di Gesù che ci salva. Non dobbiamo dimenticare che con il Battesimo siamo già stati “esorcizzati” dal Demonio che fugge dinanzi all’invocazione del Santo nome di Gesù. Questi ci darà la forza di uscire dal nostro mutismo con uno sguardo diverso sugli altri, uscirà dalla nostra bocca, un grazie, un per favore, un perdonami… piccole gocce di fuoco che hanno il potere di disgelare il gelo dentro di noi.

Se amiamo, il diavolo, con le sue tentazioni non può entrare in noi. E’ l’amore l’antidoto, l’arma contro il Maligno. Sono di questo parere gli antichi Padri: Sant’Efrem paragona l’amore al fuoco che arde nel cuore: nessuna tentazione si può avvicinare e porta un esempio molto realistico: in oriente si cucinava all’aperto, e le mosche erano attirate dla cibo. Ma le mosche finivano nella minestra solo quando era fredda; finché era bollente non potevano neppure volarci sopra. Così succede anche al nostro cuore: finché arde di amore, nessun pensiero “odioso” si può avvicinare e se lo fa ne è immediatamente scacciato.

Comunità missionaria di Villaregia

+ Dal Vangelo secondo Matteo

Mt 5,17-19 Vangelo del giorno

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto.  Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli»

Sappiamo che la Legge d’Israele era composta da tantissimi precetti che dovevano essere osservati. Ed era proprio nell’osservanza di questa legge che si giudicava la fedeltà a Dio. Gesù porta a compimento la Legge data a Israele riassumendo tutti i comandamenti in uno: “Amatevi come io vi ho amato”. E’ nell’amore che si compie il comandamento di Gesù. E’ nell’amore che niente, neppure uno iota o un segno della legge, va perduto.

Teresa di Calcutta diceva: “Saremo giudicati nell’amore”.

Siamo buoni cittadini? Sì, se osserviamo la legge. Ma come osservare tutte le leggi? Spesso non le conosciamo nemmeno, eppure c’è un modo civico di vivere che fa di noi buoni cittadini senza conoscere tutte le leggi civili.

Così siamo buoni cristiani se viviamo nell’amore, anche se non conosciamo tutti i comandamenti di Dio: Anche Gesù ha detto: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14,15). Anche Gesù ci dice di amarlo per essere certi di amare tutte le sue leggi.

Parola chiave: Se vuoi osservare tutte le leggi: ama

Comunità di Villaregia

+ Dal Vangelo secondo Matteo

Mt 18,21-35       Vangelo del giorno

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.  Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Perdonare di cuore

Matteo 18 raccoglie parole di Gesù che concernono la vita comune dei suoi discepoli. La terza ed ultima parte del capitolo tratta del perdono. Senza il perdono, non c’è vita in comunità, non c’è vita di Chiesa.

È Pietro che solleva il problema. Egli è consapevole che, anche tra discepoli, ci saranno dei malintesi, tensioni, parole o gesti che feriscono. Ha vissuto abbastanza a lungo con Gesù per sapere che il perdono è la sola via per uscire dai vicoli ciechi creati dal peccato. Per questo non chiede se bisogna o no perdonare, ma fin dove bisogna arrivare. Proponendo di perdonare fino a sette volte, egli pensa sicuramente di andare lontano. Ed è vero: perdonare sette volte lo stesso sbaglio, è molto.

Pietro e gli altri discepoli sono dovuto rimanere sorpresi della risposta di Gesù: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». Cioè senza limiti, senza contare. La cifra settantasette fa forse allusione a Lamech, discendente di Caino, vendicato per ogni ferita settantasette volte, cioè in modo smisurato (Genesi 4,23-24).

Gesù ricusa la domanda di Pietro sul limite del perdono e racconta una parabola che sottolinea due cose. Da una parte, che il perdono è senza misura. E dall’altra, che il perdono è un tutto invisibile: è impossibile separare il perdono di Dio e il perdono che ci diamo gli uni gli altri.

Nella parabola, certo, il re non rappresenta Dio. Dio non ha l’intenzione di vendere i suoi servi come schiavi, non li getta in prigione per torturarli. Nella parabola, bisogna prestare attenzione piuttosto alle inverosimiglianze significative, ai dettagli sorprendenti.

Il debito annullato è di «diecimila talenti». È l’equivalente del salario annuale di circa centocinquantamila operai, una somma che ai nostri giorni avvicinerebbe i miliardi di euro o dollari! È inverosimile che un re si lasci commuovere dalla semplice supplica del suo servo e annulli un simile debito. È eccessivo, questo re non tratta secondo ragione, ma secondo la fantasia del suo cuore commosso. Gesù fa capire che il perdono di Dio non è ragionevole ma inaudito, che sfida ogni buon senso e passa ogni misura. Il rifiuto del servo di accordare del tempo al suo compagno che gli deve il peccatuccio di cento denari, cioè appena quattro mesi di salario di un operaio, è pure sorprendente, e in più scandaloso. Gli altri compagni hanno ragione d’essere addolorati, e il re di arrabbiarsi. La faccia tosta di questo servo rasenta il cinismo. Come può esigere il suo diritto mentre lui stesso deve tutto alla sola misericordia del re?

Con questa parabola, Gesù ci presenta uno specchio ogni volta che pensiamo di dover mettere un limite al nostro perdono. «Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». Questa domanda del re è anche quella che il Cristo fa a noi. Tentennare nel perdono è così poco logico per chi ha fatto conoscenza con il perdono eccessivo di Dio.

Il perdono di Dio è certo il primo. Non è condizionato dal nostro. Ma siccome il perdono è un tutto, una realtà indivisibile, è impossibile vivere quello di Dio senza «perdonare di cuore al proprio fratello, alla propria sorella».

- Mi capita di dire: «Adesso basta!»? Quali limiti pongo alla mia disponibilità di perdonare? Perché?

- Che significa «perdonare di cuore» (v. 35)?

- Come la qualità inaudito e eccessivo del perdono di Dio può trasformare il mio atteggiamento verso coloro che sono ingiusti nei miei confronti?

Comunità di Taizè

+ Dal Vangelo secondo Luca      Lc 4,24-30 Vangelo del giorno

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga a Nàzaret «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidóne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Elisèo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Oggi, nella nostra società, che si dice tollerante, si ascoltano un po’ tutti. Se oggi Gesù parlasse nella sinagoga della sua città, sarebbe ascoltato? Dici di no?! Hai ragione anche oggi è difficile essere profeti, andare contro corrente; come minimo pensano che tu sia un pazzo. Soprattutto quando c’è qualcuno che vuole cambiare le cose, scuoterci da quel tran tran che ad un certo punto ci avvolge. Essere coerenti non è facile, diventa odioso uno che ci costringe ad esserlo, soprattutto se questi è uno che è cresciuto sotto i nostri occhi.

Ricordo un’esperienza ascoltata molti anni fa: Due genitori avevano bisticciato e non si parlavano. La loro figlioletta Chiara aveva notato che qualcosa non andava: durante i pasti non si parlava molto, si scherzava ancora meno e quando papà o mamma l’accompagnavano a dormire, non si fermavano più a raccontarle una storia. La cosa andò avanti per alcuni giorni, ad un certo punto Chiara prese un po’ di coraggio e disse: Mamma, papà perché non vi date un bacio? Loro guardarono la loro figlioletta e capirono la lezione. Sì, bisognava che qualcuno prendesse l’iniziativa per riconciliarsi.

Possiamo dire che in questo caso Chiara è stata profeta di amore in casa sua… Meno male che non fu presa a bastonate come Gesù.

Comunità Missionaria Villaregia

+ Dal Vangelo secondo Giovanni     Gv 4,5-42           Vangelo del giorno

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

 

Dopo un breve soggiorno sul Tabor, illuminati dalla bellezza della Trasfigurazione di Gesù, la liturgia ci riporta nel deserto. Con l’evangelista Giovanni, che ci accompagnerà per le prossime domeniche, ci affacciamo sull’orlo dell’antico pozzo di Sicar per rivivere l’incontro tra Gesù e la donna samaritana. Il rabbi di Nazareth, stanco per il viaggio e sfinito dal caldo torrido del mezzogiorno palestinese, si siede al pozzo di Giacobbe. Qui avviene l’incontro con la samaritana, seguito dalla strana richiesta di Gesù: “Dammi da bere” (v.7). Strana perché mai e poi mai quella donna si sarebbe aspettata una simile richiesta. Il fatto di essere donna e per giunta samaritana, avrebbe dovuto scoraggiare quell’uomo giudeo a chiedere dell’acqua. E poi, se non bastasse, una donna che va al pozzo a mezzogiorno è una che ha qualcosa da nascondere e sa che a quell’ora non si incontra nessuno. Una richiesta strana, dunque. E la donna rimane disorientata: “Che vuole questo? Cos’è tutta sta confidenza? Il sole gli ha fatto perdere la ragione…” Vi devo confessare che mi piace questo Gesù che sceglie di aver bisogno di lei, che rompe gli schemi, che allunga la mano e chiede un sorso d’acqua pur di aprire una spiraglio nel cuore di quella donna. Mi piace questo Messia che non si impone con la forza e la violenza, ma si propone con il suo bisogno per iniziare un dialogo con la donna e guidarla alla scoperta della sua vera sete. Mi piace questo Rabbì che non giudica, non scaglia sentenze ma accompagna con ferma dolcezza a scoprire qual’ è la vera arsura che rende inquieto il cuore. All’inizio la donna non capisce, fraintende le parole di Gesù, rimane legata all’aspetto materiale e indaga sulla fonte d’acqua miracolosa di cui parla questo interessante straniero. E’ pronta a partire, a mettersi in viaggio per raccogliere nella sua brocca l’acqua che fa passare la sete. Ancora non sa, ancora non capisce che il viaggio da intraprendere è il più difficile e stupendo che si possa immaginare: quello dentro se stessi in compagnia del Signore. Ma non un viaggio intimistico e chiuso, bensì una esplosione che sa coinvolgere e portare lontano le parole accolte nel cuore: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia il Messia?”. Sento questo incontro tra Gesù e la donna samaritana molto vicino a noi, al nostro cammino di quaresima. Anche noi siamo chiamati a guardarci dentro, a dirci la verità come ha fatto la donna di Samaria. Forse anche per noi è giunto il momento di smettere di annacquare la nostra vita cristiana con i surrogati della fede, con il “fai da te” dei buoni sentimenti religiosi o con le macedonie di tradizionalismi e superstizioni. Annacquando di superficialità la nostra vita spirituale ci troveremo tra le mani una fede senza Dio e un cristianesimo senza Cristo. Se ci lasceremo guidare dalle parole di Gesù, se anche noi metteremo a nudo le nostre false ricerche e le nostre immobilità, senza accorgerci abbandoneremo la brocca del passato per dissetarci alla fonte viva che è Cristo. Abbandoneremo la brocca delle nostre paure, delle nostre ansie, delle nostre inutile preoccupazioni e pure noi avremo la forza di annunciare che Gesù è tutto quello che di più bello si possa desiderare per riempire il vuoto che abita nel cuore dell’uomo e per saziare la sua sete di infinito.

 

+ Dal Vangelo secondo Luca   Lc 1,26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».  Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Nell’attesa del Salvatore

Celebrare la festa dell’Annunciazione del Signore in un tempo liturgico in cui la Chiesa tende verso la Pasqua, può apparire una stranezza. Va tuttavia notato che il mistero dell’Incarnazione del Verbo eterno di Dio è finalizzato al mistero pasquale, il mistero (progetto) di Cristo. Come curiosità, il 25 Marzo era una data simbolica e prestigiosa per l’inizio della nuova era cristiana (inizio anno), così tante altre feste erano datate in questo giorno. Ora resta solo questa, 9 mesi prima del Natale. Quella di oggi non è la festa di Maria, ma una solennità molto importante, perché celebra l’annuncio dell’angelo a Maria, l’inizio dell’incarnazione, il meraviglioso incontro tra il divino e l’umano, tra il tempo e l’eternità. E’ il Signore che si incarna in Maria. E’ Dio che sceglie, come Madre del proprio Figlio, una fanciulla ebrea, a Nazaret in Galilea. Nella liturgia odierna, l’incarnazione è definita il grande segno dato da Dio agli uomini e l’inizio del grande sacrificio, quello per cui Gesù dice al Padre: “Ecco, io vengo a fare la tua volontà”. Si tratta del sacrificio perfetto, unico e definitivo, sostitutivo delle tante vittime sacrificali del Vecchio Testamento, che l’umanità offre a Dio attraverso Cristo. Già in questa totale offerta di Gesù al Padre per noi, si può cogliere il coinvolgimento pieno di Maria, che al termine del colloquio con l’angelo dà il suo sì con una espressione molto eloquente. Non dice solamente farò quanto hai detto, mi impegnerò a compiere questo servizio. Ma esprime una consacrazione: “sia fatto di me – della mia persona – quello che hai detto”. Maria era cosciente di aderire a una storia profetica, che sarebbe stata completata da suo figlio, per il quale Dio stesso aveva scelto un nome, quello di Gesù, che significa “Colui che salva, il Salvatore”. L’annuncio in Maria è un ascolto che accoglie e genera. Così realizza in se stessa il mistero della fede, accettando Dio com’è. La povertà totale, “sono la serva del Signore”, di chi rinuncia all’agire proprio per lasciare il posto a Dio, è in grado di contenere l’Assoluto. E’ figura di ogni uomo e di tutta la Chiesa che, nella fede, concepisce e genera l’incomprensibile: Dio stesso.

+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai farisei:  «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.  Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.  Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Bellissimo testo, che mostra la relazione fra Dio e l’uomo, nella dinamica dell’amore al prossimo. Dio conosce per nome il povero Lazzaro (il nome in Israele è manifestazione dell’intimo: Dio conosce la sofferenza di questo mendicante!) mentre non ha nome il ricco epulone che – peraltro – non viene descritto come particolarmente malvagio. Il senso della parabola, la parola chiave, a me pare, sia: “abisso”. C’è un abisso fra il ricco e Lazzaro, c’è un burrone incolmabile. La vita del ricco, non condannato perché ricco, ma perché il suo stile di vita lo rende indifferente, è tutta sintetizzata in questa terribile immagine. Pieno di sè la ricchezza più pericolosa, che non lascia più spazio all’altro, quindi nemmeno a Dio. E’ un abisso la sua vita. Probabilmente buon praticante, non si accorge del povero che muore alla sua porta. L’abisso invalicabile è nel suo cuore, nelle sue false certezze, nella sua supponenza. In altri tempi quest’atteggiamento veniva chiamato “omissione”: cioè un cuore che si accontenta di stagnare, senza valicare l’abisso e andare incontro al fratello. Quante volte mi sento dire in confessionale: “non faccio del male a nessuno” come il ricco della parabola! Già, ma questa tensione al minimo non può dissetare. Lazzaro, invece, chiamato per nome (tra l’altro: è una contrazione di Eleazaro che significa “Dio ha aiutato”) riceve da Dio l’attenzione negatagli dal ricco. Come ci poniamo di fronte a questa parabola? Non possiamo tirarci da parte di fronte al dramma della povertà che è la negazione dell’uomo, davanti al problema della disoccupazione, davanti ad un’economia che vive del capitale, scordando l’uomo. L’attenzione al povero, che non è atto volontaristico e sociale tanto di moda oggi, diventa misura della nostra fede. Mi accorgo della povertà economica, spirituale, umana che ho intorno a me? Noi, che abbiamo conosciuto Colui che è più di Mosé e dei profeti, non possiamo far finta di non vedere Lazzaro che muore alla porta di casa. Dio chiama per nome Lazzaro, non gli sgancia dieci Euro. Si lascia coinvolgere, ascolta le ragioni, non accetta gli inganni, aiuta a crescere. Così la nostra comunità, sempre più, deve lasciare che lo Spirito susciti in mezzo a noi nuove forme di solidarietà che rispondano alle nuove forme di povertà. La sete del ricco, finalmente sete di chi ha capito, è una sete che fin d’ora percepiamo se abbiamo il coraggio di ascoltarci dentro.

+ Dal Vangelo secondo Matteo

Mt 20,17-28

In quel tempo, mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà». Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dòminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Tutta la nostra società, la cultura, la produzione è impostata sul primato. Bisogna essere i primi, è necessario essere i primi se si vuole sopravvivere in un mondo dove gli ultimi non sono ascoltati, sono esclusi ed emarginati: i primi a scuola, i primi tra gli amici, i primi nel lavoro… Tutto è diventato competizione. Il Vangelo di oggi capovolge la situazione: Sei arrivato primo? Bene sarai ultimo: “Gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”. Dio ha un altro modo di guardare il mondo, la sua prospettiva è una prospettiva inversa, rovesciata. Per lui quelli che contano sono gli ultimi, quelli che non valgono agli occhi del mondo, potremmo dire i perdenti: Ma chi sono? Quanti sono?

Nessuno sa con esattezza quanti siano. Qualcuno stima siano tre miliardi e mezzo di rifiuti umani che rappresentano il più grave atto di accusa per la nostra società dello spreco.

Proprio perché le risorse della terra sono scarse e non consentono a tutti di vivere nel lusso, la nostra parte di mondo ha risolto il problema facendo la parte del leone. Prendiamo tutto noi e la discussione è finita!
Per cui il mondo è di fatto diviso in due: i POTENTI E I PERDENTI, O I VINCITORI E I VINTI, I RICCHI E I POVERI.
Da una parte ci sono Paesi con una potente struttura industriale, grande capacità tecnologica, molti servizi e dall’altra ci sono Paesi, ricchi di materia prima, sfruttata dai Paesi ricchi, che non hanno servizi sociali, né capacità industriali per il loro sviluppo.

Ma chi sono i grandi perdenti?

Sono i piccoli pescatori condannati alla fame perché i loro mari sono razziati dai pescherecci industriali che pigiando un solo bottone gettano le reti in fondo al mare, tirano su tutto il pesce che trovano, lo puliscono, lo impacchettano e lo surgelano pronto per essere rivenduto nei supermercati.

Sono gli abitanti dell’Amazzonia, messi in fuga da imprese vandaliche, che per portarsi via le ricchezze della foresta non esitano ad uccidere e a distruggere.

Sono i contadini delle periferie di Jakarta, minacciati di morte da parte di imprese turistiche decise ad avere le loro terre per costruire campi da golf per i turisti stranieri.

Sono… la lista è ancora molto lunga… Sono i tre miliardi e mezzo dell’umanità che vivono in situazione di sottosviluppo.

Ti sembra difficile dare un volto a questi ultimi? Forse ti può aiutare questa esperienza raccontata da P. Marco a Belo Horizonte:

“Una sera mi trovavo piuttosto in ritardo. Dovevo uscire per le consuete visite ai gruppi che si riunivano neidiversi punti della missione. in questi momenti sembra proprio che capitino tutte. Ogni cosa che succede, ogni persona che si avvicina sembra che faccia perdere tempo. Finalmente sto per uscire, e, appoggiato allo stipite della porta, vedo un uomo, un povero, uno dei tanti che cercano aiuto e solidarietà.

Stava lì in silenzio, non aveva suonato il campanello, aspettava che dentro casa qualcuno si accorgesse di lui.
In un baleno la mia mente pensa le possibili “difese”. Poi ho risolto di uscire in fretta in modo che questo fratello capisse che proprio non potevo fermarmi. E così ho fatto. Fatti i primi dieci metri, il silenzio di quell’uomo era diventato assordante. Una persona può perdere tutto, ma conservare una grande dignità. E allora le parole possono non servire, esiste un linguaggio più profondo, il linguaggio della “presenza”
Sono ritornato indietro: “Come ti chiami”, gli ho chiesto. “Sebastiano – rispose, ma il mio soprannome è Tiao”. Veniva da un paesino a 200 km, in mezzo ai grandi latifondi. “Ho lavorato nelle miniere dello Stato, facevo lo spaccatore di pietre, ho raccolto il caffè e ho fatto anche il vaccaro. Sono stanco di cambiare sempre, sono qui per trovare qualcosa di meglio. Voglio cambiare vita, padre, anch’io sono un uomo, non sono un animale”.
Era un “boia fria”, gente dal pasto freddo, uno degli “intoccabili” del Brasile, coloro che svolgono i lavori più noiosi, più sporchi e malsani in cambio di salari di fame, uno fra i milioni di contadini senza terra.
Di fronte a Tiao mi sono sentito subito ricco, ricco perfino della mia fretta, del mio tempo. Ho chiesto a Tiao un documento, la sua carta di identità. E quell’uomo, dopo un attimo di esitazione ha inclinato la testa e mi ha mostrato le sue mani grosse e rozze, pieni di calli e di screpolature dicendomi: “Ecco i miei documenti. Quando ogni mattina, nella piazza del mio paese, arriva il fazendeiro con il camion per scegliere i lavoratori di quella giornata, servono questi documenti. Io non ne ho altri”.

La società, ormai telematica, non sapeva che Tiao esisteva, ma Dio Padre sì, ed ora anch’io. Avrei voluto baciare quei preziosi “documenti” e domandare perdono a quel fratello che inizialmente avevo ignorato. Siamo riusciti ad aiutare Tiao donandogli un alloggio e un lavoro.

Anche Dio ci chiede un documento, lo stesso documento per tutti gli uomini, l’unico documento valido per la salvezza: l’amore al prossimo, anche quando questo forse significa mettersi in fila con gli ultimi, con i perdenti della nostra società.

La Parola ci invita a un cambio di mentalità e di atteggiamento: l’altro, chiunque altro, viene sempre prima di me.

Comunità Missionaria Villaregia (giovani)

+ Dal Vangelo secondo Matteo                  Mt 23,1-12

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:  «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.  Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.  Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.  Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

Ogni pagina del vangelo è scritta per la Chiesa. Gli scribi e farisei siamo noi, invitati a riconoscerci in loro. Il problema presentato da questo brano è sempre lo stesso: al centro di tutto poniamo Dio o il nostro io?

Gesù critica gli scribi e i farisei, e noi con loro, perché fanno tutto per essere visti e lodati: “Fanno tutte le loro opere per essere visti dagli uomini” (v.5). Si preoccupano di recitare la parte dell’uomo pio e devoto più che di vivere un sincero rapporto con Dio.

La falsità è abbinata ovviamente a una buona dose di vanità e di orgoglio. In un mondo in cui la religione è tenuta in considerazione le persone religiose acquistano automaticamente la massima reputazione. Esse occupano, quasi per convenzione comune, il posto di onore dovuto a Dio. Difatti gli scribi e i farisei con la loro pietà simulata hanno posti di riguardo nelle sinagoghe e nei conviti, e quando appaiono in pubblico ricevono da ogni parte inchini, ossequi e saluti nei quali vengono scanditi con esattezza i loro titoli onorifici.

Anche i discepoli di Gesù sono esortati a rifuggire da questi comportamenti segnalati nei farisei e negli scribi. I titoli onorifici e le rivendicazioni di potere sono fuori luogo perché essi sono tutti fratelli, figli dello stesso Padre (v.8) e sono guidati dallo stesso Cristo presente in loro (v.10).

Nella comunità cristiana i più grandi sono gli ultimi e l’unico primato che conta è quello dell’abbassamento e del servizio (v.11). In essa non devono nemmeno circolare gli appellativi che indicano distinzione e discriminazione che mettono in evidenza un preteso diritto di controllo e di dominio di alcuni sugli altri. Spesso succede che il nostro Signore, al quale diamo del tu, è predicato da signori ai quali diamo del lei.

Alla fine Gesù deve ricorrere ai comandi (sia vostro servo: v.11) e alle minacce per abbassare chi si era elevato al di sopra degli altri (v.12).

Matteo sta mettendo a confronto due immagini di Chiesa. L’una farisaica, pomposa, appariscente e vuota, dominata da capi avidi di onore e di potere; l’altra cristiana, costituita da amici e da fratelli. Quest’ultima non è anarchica, perché è guidata direttamente da Cristo e dal Padre, di cui tutti sono ugualmente figli. Coloro che vi esercitano funzioni o incarichi sono chiamati a testimoniare con le opere più che con le parole (cfr v.3) la presenza invisibile del Padre, non a sostituirla. Perché egli non è mai assente.

La Chiesa di Cristo è una comunità di uguali, una fraternità che ha come criterio di discernimento il servizio. In essa esiste una diversità di ruoli e di responsabilità, che però devono essere svolti come servizio. Questo stile ha come modello Gesù stesso, il quale è venuto per servire (cfr Mt 20,26).

La logica dei rapporti che deve regolare la comunità cristiana è quella dell’umiltà. La condizione dettata da Gesù: “se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3) è l’atteggiamento esattamente opposto a quello dell’autoesaltazione degli scribi e dei farisei.